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Quando venne ucciso dalla mafia, la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Galena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta (senza scorta, con la sua Ford Fiesta amaranto), Rosario Livatino stava per compiere appena 38 anni. Era effettivamente un “giudice ragazzino”, così come lo ricordiamo noi e come l’aveva, in realtà, ribattezzato l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. E non si era certo trattato di un complimento: con quell’appellativo il “picconatore” intendeva semplicemente manifestare il suo disappunto nei confronti di una classe di magistrati, con Livatino su tutti, che pretendeva di “poter esercitare l’azione penale a diritto e rovescio come gli pare e gli piace, senza risponderne a nessuno….”, aggiungendo poi: “A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.” Parole dure, sprezzanti. Come altrettanto dure e sprezzanti erano state altre parole pronunciate in quegli anni – non solo da Cossiga – sui “preti fanatici”, sui “sindaci protagonisti”, sui “professionisti dell’anti-mafia”: col risultato di scavare tutt’intorno a quei testimoni scomodi (tra i quali Pietro Ivano Nava, ingegnere lombardo, testimone fortuito del delitto Livatino, che visse l’inferno in terra, a causa del suo coraggio e che fu abbandonato dalle istituzioni), a quegli uomini che non piegavano la testa ed incitavano a non piegarla col lavoro e con le parole, una trincea sempre più profonda di solitudine e di pericolo.
Rosario Livatino era nato a Canicattì, la capitale dell’ uva, il 3 ottobre 1952. Studi brillanti, laurea in Giurisprudenza con 110 e lode a 22 anni, alla prima sessione possibile. Poi una seconda laurea in Scienze Politiche e intanto la solita trafila dei concorsi, come migliaia di giovani siciliani. Rosario ce la fa: a 26 anni vince un concorso per un posto da dirigente nell’Ufficio del Registro di Agrigento. Ci rimane solo otto mesi, però, perché arriva il successo nel concorso per entrare in Magistratura, con assegnazione ad Agrigento, cosa che gli permette di rimanere nella casa paterna, accanto agli amatissimi genitori, Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo.


Apparteneva alla categoria dei lavoratori schivi, servitori silenziosi ed infaticabili della giustizia che alle dichiarazioni pubbliche preferiva l’impegno quotidiano, scrupoloso, ostinato. Sul suo tavolo di lavoro, egli teneva un crocifisso ed un Vangelo. Non come una dichiarazione di facciata, bensì come una convinzione di vita in virtù della quale svolgeva giornalmente il suo compito, “sub tutela dei”, sotto la tutela di Dio. Livatino aveva detto in un discorso: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Decidere è scegliere e, a volte, scegliere tra numerose strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…. Ma è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio: un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”. Il Vangelo sul tavolo era tutto annotato, segno di una continua frequentazione: un codice di vita, tanto quanto lo era il codice di procedura penale, un impegno morale che dava senso al lavoro e sapeva sostenere nei momenti di sconforto. Tutte le mattine, dalla sua casa di Canicattì, raggiungeva il Tribunale ad Agrigento: prima, però, si riconfermava alla tutela di Dio e si fermava a pregare da solo, nella vicina chiesa di S. Giuseppe.


Il giudice agrigentino fu ucciso dai componenti della “Stidda”, l’organizzazione che nella Sicilia del sud contendeva il predominio del territorio a Cosa Nostra. Secondo la ricostruzione confermata poi dalle sentenze, il delitto Livatino sarebbe stato progettato dagli “stiddari” per dare una prova di forza nei confronti di Cosa Nostra ed eliminare un giudice troppo inflessibile e rigoroso. L’inchiesta sull’omicidio Livatino è sfociata in tre procedimenti giudiziari: nei primi due sono stati condannati all’ergastolo gli esecutori materiali dell’assassinio; nel terzo processo, i giudici della Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta hanno condannato all’ergastolo come mandanti Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti.